INNER GAME

La storia del mental coaching sportivo è ricca di studi e filosofie diverse che hanno cercato di decifrare e potenziare quel legame potentissimo tra mente e prestazione atletica. È un campo vibrante, in continua evoluzione, e ciascuna teoria ha aggiunto un tassello fondamentale a questa scienza della performance umana. Adesso è il momento di focalizzarci su un gigante, Timothy Gallwey e la sua rivoluzionaria teoria dell'Inner Game.

Gallwey ha introdotto un punto di vista radicalmente nuovo, spostando l'attenzione su quello che accade nella mente del giocatore. L'Inner Game, il gioco interiore, si fonda sulla consapevolezza che molti dei limiti che incontriamo sono autoimposti e nascono da giudizi e conflitti interni che sabotano il nostro potenziale. Secondo Gallwey, per eccellere nello sport non basta sviluppare competenze tecniche e fisiche, ma è fondamentale riconoscere e superare questi ostacoli mentali.

All'inizio degli anni Settanta, Gallwey osservò che molti tennisti, nonostante un alto livello di preparazione fisica e tecnica, vedevano le proprie prestazioni diminuire a causa di interferenze mentali che potevano essere descritte come una lotta tra due aspetti della loro mente. Pertanto, definì i due componenti principali di questo dialogo interiore: il Sé 1, che rappresenta il giudice interiore, critico e perfezionista, e il Sé 2, che simboleggia la parte intuitiva, istintiva e automatica del giocatore, capace di eseguire azioni complesse senza uno sforzo consapevole.

Il Sé 1 dice al giocatore: "Non sei pronto", "Quel colpo è troppo difficile e lo sbaglierai", "Non sei abbastanza bravo". Questa voce si attiva tipicamente in momenti di pressione, amplificando la paura di sbagliare e imponendo un controllo eccessivo sui movimenti. Il Sé 1 è legato all'ego e tende a proteggere l'individuo dal fallimento attraverso il controllo e l'autocritica, alimentando però l'ansia e la tendenza a volere evitare errori a tutti i costi. Per il Sé 1 è meglio non fare che rischiare di sbagliare, e questo controllo eccessivo finisce per interferire con la naturale esecuzione del gesto atletico, trasformando ciò che potrebbe essere un'azione fluida e spontanea in un atto complesso, rigido e frammentato.

Un esempio del Sé 1 in azione è il fenomeno del choking (soffocamento) osservato per la prima volta da un professore di psicologia dell'Università della Florida, Roy Baumeister. Il choking si verifica quando un giocatore, sotto una forte pressione o in un momento cruciale, perde improvvisamente la capacità di esprimere le proprie abilità al livello abituale. È come se la pressione del momento portasse a un blocco mentale e fisico, compromettendo le prestazioni proprio quando è più importante mantenere la calma e la concentrazione. In italiano, il termine viene spesso tradotto con "blocco" o "crollo psicologico". Quando si verifica, il giocatore tende a pensare troppo a ciò che sta facendo o si fa assorbire dalla paura di sbagliare, il che lo porta a perdere la naturalezza e l'automatismo dei suoi gesti, entrando in uno stato di rigidità.

Un esempio celebre è quello del golfista australiano Greg Norman all'Augusta Masters del 1996. Era in vantaggio di sei colpi su Nick Faldo, suo diretto inseguitore, e pareva destinato a dominare il torneo. All'ultimo giro di gara, però, la sua corsa verso il trionfo inizia a trasformarsi in una lenta agonia. Norman alterna tiri sbilenchi a errori grossolani. Alla decima buca, Faldo ha già recuperato lo svantaggio ed è con il morale alle stelle, mentre Norman si innervosisce, ha paura e perde lucidità. Alla dodicesima buca colpisce il bordo anteriore del green e la palla finisce nell'acqua. I suoi sogni di gloria affondano alla sedicesima, con la palla nuovamente in acqua.

Qualche anno dopo, ripensando a quel crollo psicologico, Norman provò a consolarsi così: "Ho combinato un casino. Tutto qua. Ma perdere un Masters non è la fine del mondo: anche se me lo sono lasciato scappare ho ancora una bella vita".

Durante eventi decisivi, come un match-point nei giochi di racchetta, il Sé 1 può scatenare pensieri di paura. In questi momenti, il giocatore può perdere il collegamento con il proprio istinto e con i movimenti naturali, proprio perché il Sé 1 sta cercando di guidare eccessivamente ogni singola azione.

Il Sé 2, invece, rappresenta quella parte della mente che agisce in modo spontaneo, senza sforzo cosciente o giudizio, e si manifesta al meglio quando il giocatore è in uno stato di flow, con la mente quieta e focalizzata sul momento presente, senza interferenze. Un tennista che ha ripetuto migliaia di volte il movimento del servizio non deve pensare consciamente a ogni fase del colpo, perché il Sé 2 attinge alla memoria muscolare e ottiene una performance fluida.

Secondo Gallwey, la chiave per il successo nello sport risiede nella capacità di ridurre l'influenza del Sé 1, lasciando che il Sé 2 possa agire liberamente. Quando il Sé 1 cerca di prendere il controllo, sovraccaricando il giocatore di istruzioni e critiche, il risultato è una performance frammentata, meccanica e insoddisfacente. Al contrario, quando il Sé 2 può esprimersi pienamente, otteniamo una prestazione più naturale e coordinata.

Gallwey descrive questa dinamica con la formula "Performance = Potenziale - Interferenze". Il potenziale è ciò che il giocatore è in grado di fare grazie alla pratica e all'allenamento, mentre le interferenze sono rappresentate principalmente dal Sé 1.


NON GIUDICARE

Abbandonando l'approccio tradizionale, in cui l'allenatore impartisce comandi tecnici, Gallwey incoraggia gli atleti a osservare i propri movimenti senza valutarli come giusti o sbagliati. Questo processo, che chiama osservazione non giudicante, aiuta a ridurre ansia e tensione, consentendo un apprendimento più fluido e naturale.

In pratica, Gallwey preferisce non dire: "Colpisci la palla così," ma fa effettuare un colpo naturale all'allievo per poi chiedergli di osservare dove cade la palla, come si muove e perché. L'apprendimento più efficace avviene quando il giocatore sperimenta in prima persona il movimento, senza dare spazio all'interferenza del Sé 1. Questo approccio, noto come coaching non interventista, permette al giocatore di acquisire fiducia nel proprio corpo e sviluppare una comprensione intuitiva dei movimenti.

La consapevolezza diventa l'elemento centrale: osservando con attenzione, l'allievo sviluppa automaticamente una maggiore sintonia con il proprio corpo e con il gioco stesso. Gallwey è convinto che questa forma di apprendimento sia più efficace, perché il giocatore inizia a fidarsi delle proprie percezioni e del proprio istinto. Così facendo, le abilità si affinano senza l'ingombro della mente analitica, che spesso introduce ansia e incertezze, rendendo il processo più complesso di quanto sia necessario.

L'abitudine a valutare ogni movimento come giusto o sbagliato è uno dei principali ostacoli alla performance naturale del giocatore. Quando il giocatore valuta ogni errore come una mancanza, si crea un ciclo di autocritica che porta a tensione muscolare, stress mentale e insicurezza. La mente critica, o Sé 1, continua a focalizzarsi sugli errori e sulle carenze, interferendo con il fluire dei movimenti spontanei che caratterizzano il Sé 2. Secondo Gallwey, la chiave per interrompere questo ciclo di giudizio sta nel semplice atto di osservare e nel prendere coscienza delle proprie azioni senza sovraccaricarle di significato. Piuttosto che giudicare il risultato di un colpo o di un movimento, il giocatore dovrebbe concentrarsi sugli aspetti oggettivi dell'azione, come il movimento della racchetta, il rimbalzo della palla o le sensazioni del corpo durante l'esecuzione.

La pratica dell'osservazione non giudicante nella teoria dell'Inner Game anticipa in molti aspetti le pratiche di mindfulness che incoraggiano una consapevolezza non giudicante del presente. La mindfulness, resa popolare da Jon Kabat-Zinn nel contesto clinico, si è successivamente dimostrata efficace anche nello sport come pratica che aiuta gli atleti a mantenere la concentrazione sul momento presente, riducendo l'interferenza dei pensieri legati al passato o al futuro. Kabat-Zinn definisce la mindfulness come "l'atto di prestare attenzione, momento per momento, senza giudizio". Gallwey applicò questo principio prima ancora che la mindfulness fosse ampiamente diffusa, riconoscendo che la capacità di focalizzarsi sull'esperienza immediata poteva aiutare il giocatore a gestire meglio lo stress e migliorare la propria performance.

La pratica dell'osservazione non giudicante ha implicazioni psicofisiologiche significative per gli atleti. Riducendo il giudizio critico, si abbassano i livelli di tensione muscolare e di cortisolo, l'ormone dello stress. Inoltre, lo stato di osservazione non giudicante permette un maggiore rilassamento muscolare e una ridotta attivazione del sistema nervoso simpatico, che controlla le risposte di lotta o fuga in situazioni di stress.


LASCIARE ANDARE

Uno dei concetti centrali della teoria dell'Inner Game è il principio del lasciare andare, cioè la capacità del giocatore di evitare il controllo conscio ed eccessivo dei movimenti, permettendo alla performance di emergere in modo fluido e naturale. Per Gallwey, il lasciare andare non significa ignorare l'importanza della tecnica, ma liberarsi del bisogno di monitorare ogni gesto, fidandosi delle capacità acquisite attraverso l'allenamento.

Gallwey descrive la necessità di un allenamento mentale che addestri il giocatore a lasciare andare il desiderio di perfezione e accettare che l'errore è parte dell'apprendimento.

Lo stato mentale che si raggiunge con il lasciare andare ha molte somiglianze con la teoria del flow di Mihály Csíkszentmihályi, secondo cui la performance ottimale si raggiunge quando la mente è completamente libera da distrazioni, interferenze e giudizi, permettendo una totale immersione nell'attività. Questo stato, chiamato appunto flow, o flusso, è caratterizzato da una concentrazione così intensa che l'individuo perde la percezione di sé e del tempo, sentendosi totalmente coinvolto nel compito. Nel flow, ogni azione scorre naturalmente verso la successiva, senza sforzo o esitazione, in una sorta di armonia tra corpo e mente. Le abilità personali e le sfide della situazione si equilibrano perfettamente: l'attività è impegnativa ma non eccessivamente, e la motivazione resta alta. Questo concetto è molto influente nella psicologia dello sport, nella creatività e nel lavoro, dove il flow è associato al miglioramento delle prestazioni e a un profondo senso di soddisfazione.

Il lasciare andare è la condizione basilare che permette di entrare in uno stato di flow, dove il Sé 2 può operare senza interruzioni e il giocatore esprime appieno il suo potenziale.

Quando un giocatore si fida del Sé 2, accede a livelli di prestazione superiori, poiché si libera dell'ansia e dei dubbi che derivano dall'eccessivo controllo mentale. Gallwey ritiene che fidarsi del Sé 2 significa, in ultima analisi, fidarsi delle proprie capacità e competenze acquisite. Così, il giocatore sviluppa una fiducia che non si basa sulla perfezione ma sulla capacità di lasciare fluire la performance, accettando che ogni movimento e ogni azione facciano parte di un processo di miglioramento continuo.

La pratica del lasciare andare è particolarmente utile negli sport che richiedono movimenti ripetitivi e coordinati, come il padel. Il controllo eccessivo dei movimenti può introdurre tensione e rigidità, riducendo la precisione e l'efficacia dell'azione. Nel golf, ad esempio, un giocatore che cerca di controllare eccessivamente lo swing potrebbe finire per irrigidire i muscoli, compromettendo la fluidità e l'equilibrio del colpo. Il lasciare andare diventa quindi uno strumento fondamentale per mantenere una postura rilassata e una concentrazione ottimale.

Durante l'allenamento, l'osservazione non giudicante e il lasciare andare lavorano insieme. Quando un giocatore osserva i propri movimenti senza giudizio, la mente si rilassa e l'apprendimento avviene spontaneamente, perché il giocatore è libero di esplorare e sentire il movimento senza la paura di sbagliare. È il giudizio eccessivo a interrompere il naturale processo di apprendimento, poiché crea ansia e tensione. A differenza dell'allenamento convenzionale, che tende a correggere ogni errore immediatamente, l'osservazione non giudicante permette agli atleti di esplorare nuove strategie motorie e trovare soluzioni personali.

L'osservazione non giudicante ha impatti positivi anche sul benessere emotivo del giocatore. La riduzione del giudizio non solo elimina l'ansia da prestazione, ma permette al giocatore di separare la propria identità dal risultato della prestazione, evitando che un errore diventi un riflesso del proprio valore personale. Gli atleti imparano così ad accettare i propri errori come parte del processo di apprendimento, piuttosto che vederli come fallimenti. Tale accettazione favorisce una mentalità di crescita, in cui ogni esperienza, positiva o negativa, è vista come un'opportunità di miglioramento.


L'INNER GAME E IL TENNIS

Il tennis fu il primo sport in cui Gallwey applicò e sviluppò la sua teoria, rendendolo un laboratorio pratico per l'osservazione dei meccanismi mentali e delle loro influenze sulla performance sportiva.

Il servizio è sempre stato considerato uno dei gesti più tecnicamente complessi nel tennis. Gallwey sostiene che le difficoltà nel servizio non siano legate solo alla complessità fisica del gesto, ma soprattutto al modo in cui i giocatori approcciano mentalmente il colpo. L'errore più comune nel servizio è la tendenza a pensare al risultato del colpo, piuttosto che a percepire le sensazioni del movimento. I giocatori, nel tentativo di servire forte, perdono la naturalezza del gesto, si irrigidiscono e finiscono per compromettere la fluidità e la precisione.

Per questo motivo, Gallwey insegna ai suoi allievi a focalizzarsi esclusivamente sulla sensazione fisica del movimento, senza preoccuparsi di dove la palla andrà a finire. Ad esempio, chiede loro di prestare attenzione alla mano che impugna la racchetta quando colpisce la palla, o alla percezione del braccio durante il movimento di lancio. Questo approccio, che richiede un'attenzione selettiva e consapevole, permette agli allievi di entrare in contatto con il proprio corpo ed eseguire il servizio senza le interferenze del Sé 1.

Invece di dire a un allievo di colpire la palla con più forza, Gallwey fa eseguire il servizio e poi chiede al giocatore come ha sentito il colpo, spingendolo a riflettere sulle proprie percezioni. Questo approccio permette al giocatore di entrare in contatto con il proprio corpo e trovare autonomamente la soluzione migliore, sviluppando una maggiore fiducia nelle proprie capacità.

Questa tecnica non solo migliora la precisione del servizio, ma ha anche un effetto positivo sulla fiducia dei giocatori. Gallwey sostiene che la fiducia non è una qualità astratta, ma una percezione concreta del proprio corpo che si sviluppa attraverso la consapevolezza dei movimenti. Quando gli atleti diventano più consapevoli del proprio corpo e del proprio movimento, riescono a mantenere la calma e la lucidità anche in situazioni di alta pressione, come durante un tie-break o un match point. La fiducia viene alimentata non attraverso parole motivazionali o incoraggiamenti esterni, ma attraverso la pratica dell'attenzione consapevole e non giudicante.

Questa metodologia di coaching trasforma il rapporto tra allenatore e allievo, poiché l'obiettivo non è più solo il miglioramento della tecnica, ma anche l'evoluzione della consapevolezza del giocatore. Per Gallwey il compito del coach è aiutare il giocatore a scoprire il proprio potenziale, non di dirgli cosa fare.



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